Per capire quanto le tradizioni fossero sacre e care ai Longobardi procediamo con l'analisi di un rituale risalente agli inizi della migrazione dalla Scandinavia.
Lo storico Paolo di Warenfrid (o "Diacono") ci narra, in merito ad un episodio avvenuto sul finire del I secolo in Mauringa (area forse corrispondente all'attuale Meclemburgo), del rituale con cui veniva concessa la libertà (il racconto segue l'episodio della guerra tra campioni che vide, contro il miglior guerriero degli Assipitti, uno schiavo lottare e vincere, guadagnando per sé e per i propri familiari la libertà in seno al Volk longobardo):
«Giunti finalmente in Mauringa, i Longobardi, per poter aumentare il numero dei combattenti, sottraggono molti dal giogo della schiavitù e li portano allo stato di uomini liberi; e perché questa condizione di libertà potesse avere una ratifica, lo sanciscono secondo l'usato costume con una freccia, mormorando contemporaneamente, per dare stabilità alla cosa, alcune parole nella lingua dei loro padri.»
[Historia Langobardorum I-13]
Con questo ci appare ricco di simbolismo il racconto della fuga del bisnonno del Warnefrido (Lopichis figlio di Leupchis), dalla prigionia tra gli Avari in cui era caduto dopo la scorreria nemica a Cividale nel 610, quando si dice che si imbarcò nel'impresa portando con se "una faretra, un arco e un po' di cibo" [HL IV-37].
Per il significato della freccia tra le popolazioni germano-scandinave ci limitiamo a riportare quanto detto da Gianna Chiesa Isnardi ne "I miti nordici":
«Simbolo divino e maschile, la freccia è strumento di penetrazione, apertura, superamento dello spazio, della pesantezza (dunque della materialità) e di elevazione. È altresì emblema di scelta avvenuta, di sicurezza della direzione, di decisione.»
Ed è proprio il significato di "elevazione" che ritroviamo in questa pratica longobarda.
Punte di freccia dalla necropoli longobarda di Testona (centro abitato vicino alla città di Torino, al tempo sede ducale della Neustria, macroregione del Regno Longobardo a Ovest del fiume Adda).
Nell'immagine troviamo anche due strutture metalliche facenti parte di altrettanti archi. Seguono le nostre traduzioni della descrizione in lingua tedesca:
[191] Arco costituito da una striscia di ferro piatto, che termina con un anello chiuso a un'estremità e un gancio aperto all'altra. Il bordo è curvo alla maniera dell'arco riflesso (in tedesco "Reflexbogen", l'arco composito realizzato attraverso l’unione di diversi materiali, costituito da lamine sovrapposte di legno e di osso nd.Winniler).
[192]Frammento di arco della forma del tipo Nr.191 con un gancio in basso
Tavola tratta dal volume "Die Langobardischen funde aus dem gräberfeld von Testona (Moncalieri - Piemont)" [Otto von Hessen, Accademia delle Scienze di Torino, 1971] |
Le manomissioni (termine che nel diritto romano indicava l’affrancazione di uno schiavo) dei servi erano state regolate nel capitolo 224 dell'editto di re Rothar/Rotari del 643:
«Sulle manomissioni. Se qualcuno vuole lasciare libero un proprio servo o una propria serva, gli sia consentito di fare come gli piace. Chi vuole farlo fulcfree ["pienamente libero" nd.Winniler] e indipendente a sé, cioè haamund ["senza mundio", cioè senza il prezzo personale del servo nd.Winniler], deve fare così: lo consegni prima nelle mani di un altro uomo libero e lo confermi tramite gairethinx [lett. "l'assemblea delle lance" cioè l'assemblea degli uomini liberi, gli unici a cui era permesso di portare armi nd.Winniler]; e il secondo lo consegni ad un terzo allo stesso modo e il terzo lo consegni a un quarto. E il quarto lo conduca ad un quadrivio e gli doni una gaida ["punta/cuspide" nd.Winniler] e un gisil ["asta di freccia", interessante notare come tale vocabolo, a volte presente con la grafia "gisel", abbia anche significato di garante/testimone nd.Winniler] e dica così: «Per queste quattro vie hai libera facoltà di andare dove vuoi» . Se si fa così allora sarà haamund e a lui spetterà una libertà certa; in seguito il patrono non abbia facoltà di avanzare alcuna rivendicazione contro di lui o contro i suoi figli. Se colui che è stato fatto haamund muore senza eredi legittimi, gli succeda la corte del re, ma non il patrono o gli eredi del patrono.»
Il capitolo continuava specificando come, in assenza del rituale presso le "quattro vie" (che non era richiesto solo di fronte alla volontà del Re di rendere totalmente libero uno schiavo), non vi sarebbe stata totale indipendenza e il servo sarebbe diventato un aldio (un semilibero) che avrebbe vissuto sotto la potestà dell'antico padrone (ora "patrono") come un parente.
Il padrone e gli altri 3 esponenti che si consegnavano lo schiavo da liberare dovevano essere persone di rilievo all'interno della comunità locale, probabilmente dei capifamiglia, ed in futuro avrebbero potuto garantire con la propria parola, in assenza di testimonianze scritte (nulla vietava di provvedere anche in tal modo), l'avvenuta liberazione del soggetto tramite l'antico rituale.
La formula "in gaida et gisil", che alcuni (G.Restelli e S.Gasparri) traducono in "con il bastone e con la freccia", è una formula fissa e allitterante usata nel linguaggio giuridico. Rimane a parer nostro incerto se la punta sia di freccia, che quindi con l'asta avrebbe composto l'oggetto segnalato da Paolo di Warenfrid nell'episodio relativo alla migrazione, o di una lancia (come ritiene la linguista Francovich Onesti), per cui ci saremmo trovati di fronte all'arma tipica del guerriero longobardo (di qualunque ceto), arma fondamentale per la guerra e, nel caso dei Longobardi, dalla profonda valenza odinica perciò sacrale. Quindi la formula dell'editto di Rothar "thingit in gaida et gisli" diventerebbe "doni (renda libero) legalmente in punta di lancia e asta di freccia".
Non possiamo tralasciare come l'uso dell'arco fosse diffuso in tutti i ceti dei longobardi (Paolo di Warnefrid ci racconta che "[Re] Grimuald/Grimoaldo, nove giorni dopo una flebotomia, mentre stava nel suo palazzo, prese l'arco e, sforzandosi di colpire una colomba con una freccia, si ruppe una vena del braccio" [HL V-33]), ma in guerra era appannaggio dei ceti più bassi. A tal proposito ricordiamo i capitoli 2 e 3 delle celebri leggi di riforma dell'esercito, volute da Re Aistulf/Astolfo nel 750:
«[2] Circa quegli uomini che possono avere una corazza e pure non ce l'hanno affatto, o quegli uomini minori che possono avere cavallo, scudo e lancia e pure non li hanno affatto, oppure quegli uomini che non possono avere, né hanno, di che mettere assieme, [stabiliamo] che debbano avere scudo e faretra. [...] così inoltre piace al principe circa gli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano la faretra con le frecce e l'arco.
[3] Inoltre, circa quegli uomini che sono mercanti e che non hanno beni fondiari, quelli che sono maggiori e potenti abbiano corazza e cavalli, scudo e lancia; quelli che vengono dopo abbiano cavalli, scudo e lancia; quelli che sono minori abbiano faretre con frecce ed arco.»
Analizzando il summenzionato capitolo 2, come suggerisce G. Tabacco, possiamo capire come, negli ultimi anni del Regno Longobardo, chi non avesse nemmeno possibilità di dotarsi di uno scudo sarebbe stato esonerato da qualsiasi armamento, con la conseguenza che i più poveri tra i "liberi" venissero esclusi dall'esercito e di conseguenza dalla "gens Langobardorum" (in tale periodo viene meno la sovrapposizione del vocabolo "arimanno", indicante l'uomo dell'esercito, con il concetto di "uomo libero").
Illustrazione di Angus McBride apparsa a pagina 37 del volume di Tim Newark "Barbarians" (Concord Publications, 1998).
Vi troviamo rappresentato un nobile Longobardo, dell'VIII secolo, posto a difesa di una vallata alpina del Regno, di fronte al cadavere di un invasore Franco al servizio di re Carlo durante la sua guerra di conquista del Regno Longobardo. Affianca il nobile un arciere responsabile dell'uccisione. |
L'antichissima tradizione della freccia vide poi affiancata una nuova pratica, voluta da re Liutprand (tra i più strenui sostenitori del cattolicesimo, su cui grava l'onta di aver avversato in più occasioni le pratiche ancestrali del proprio popolo), che secondo un editto emanato nel 721 avrebbe potuto aver luogo presso un altare (dando così alla Chiesa il potere che precedentemente apparteneva solo al Re):
«Se qualcuno lascia libero, o libera, un proprio servo, o serva, in chiesa presso l'altare, a costui rimanga la libertà come a chi è condotto fulcfree in quarta mano e fatto haamund. Invece, chi vuole fare qualcuno aldio non lo conduca in chiesa, ma lo faccia in un altro modo, come vuole, con un documento o come gli piace.»
[Editto di Liutprand, capitolo 23]
L'unico modo in cui possiamo concludere è porci la domanda se certe pratiche siano sopravvissute alla caduta del Regno Longobardo. Siamo da tempo abituati a leggere di atti notarili, redatti nei territori dell'ex-Regno, in cui ci si appellava alle leggi degli Avi Longobardi ancora nel XII secolo, ma troviamo ancora interessante notare come l'usanza di cui oggi abbiamo parlato si conservò ancora per secoli in un curioso mix: risulta infatti che nel 1130, in presenza del presbitero Aldebran e di nobili locali, presso la chiesa di sant’Andrea di Creda (località dell'Appennino bolognese, nell’alto corso del torrente Setta), venne concessa piena libertà al servo Ubertino di Albertino; la cerimonia si svolse attorno all'altare e fu accompagnata dalla formula "quia a domnis suis in gaidam et in gislim seu et in gairetinx et in quarta manu vel tingati fiunt" (cioè "poiché dai loro padroni sono resi legalmente liberi [con gaida e gisil] senza contrasti e alla presenza di testimoni, nonché davanti all’assemblea degli armati e dopo il passaggio nelle mani di quattro uomini liberi"). In tale cerimonia non troviamo la presenza fisica né della freccia né della lancia, nonostante rimanga la formula allitterante degli Editti Longobardi (è probabile che nel XII secolo solo gli esperti di leggi conoscessero il completo significato della formula) e sia stato scelto il luogo indicato dall'Editto di Liutprand come alternativo al crocevia.
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