I Longobardi definivano se stessi come “esercito”, erano una popolazione guerriera figlia del Dio Godan (il padre degli eserciti della tradizione germanica) forgiata da secoli di scontri attraverso l’Europa.
All’età di 12 anni, a meno che non fossero menomati nel fisico o nella mente, i maschi ricevevano una spada ed iniziavano ad allenarsi nell’arte della guerra (analisi antropometriche sui reperti ossei rinvenuti nelle necropoli longobarde indicano come questi guerrieri fossero dotati di una struttura muscolare superiore alla norma) lasciando alle popolazioni assoggettate il compito di lavorare i campi ed allevare il bestiame così da provvedere al loro sostentamento. Il guerriero Longobardo era chiamato arimanno che letteralmente significava “uomo dell’esercito” ma che per estensione indicava qualsiasi appartenente al Volk longobardo cioè qualsiasi uomo libero (fino all’ VIII sec. l’appartenenza all’esercito era un’esclusiva riservata ai soli longobardi anche se, già nella seconda metà del VII sec. a causa di un allontanamento dalla tradizione tribale che colpì parte della società longobarda, alcuni longobardi cercavano di essere esonerati dai doveri militari).
Il re era il comandante supremo dell’esercito, la sua guardia personale era formata dai gasindi (lett. “compagni di viaggio” o “uomini del seguito”) capitanata dal mahrskalk (lett. “addetto alle scuderie [regie]”, in quanto come d’usanza germanica gli uomini più vicini al re svolgevano le principali funzioni di corte; significato analogo ha anche marphais). Carica importante era anche quella di scildpor (scudiero). Sotto il re v’erano i duchi (dal latino dux) da cui dipendevano gli sculdahis a cui seguivano i decani fino ad arrivare ai semplici arimanni.
I Longobardi, almeno fino a che mantennero una struttura tribale poco influenzata dal costume romano, combattevano per fare cioè si raggruppavano in schieramenti formati da guerrieri uniti da vincoli di sangue (la fara era il nucleo alla base della società longobarda), non a caso in area germanica alcuni studiosi traducono il termine arimanno con “colui che segue lo scudo del proprio casato”.
Nel 750, in un periodo posteriore a quello rievocato attualmente dai Winniler e di grandi mutamenti della composizione dell’esercito longobardo (molti “romani”, cioè non longobardi, vengono ammessi tra le fila dell’esercito venendo così “naturalizzati” mentre sempre più erano i longobardi, soprattutto facoltosi, che cercavano di venire esonerati dal servizio nell’esercito), il re longobardo Aistulf/Astolfo promulgava alcune nuove leggi che ci permettono di capire come fosse composto uno schieramento longobardo in battaglia:
2. circa quegli uomini che possono avere una corazza e pure non ce l’hanno affatto, o quegli uomini minori che possono avere un cavallo, scudo e lancia e pure non li hanno affatto, oppure quegli uomini che non possono avere, né hanno, di che mettere assieme, [stabiliamo] che debbano avere scudo e faretra. Resta fermo che quell’uomo che ha sette case massaricie abbia la sua corazza con il restante equipaggiamento e debba avere anche cavalli; e se ne ha di più, per questo numero deve avere i cavalli ed il restante armamento. Piace inoltre che quegli uomini che non hanno case massaricie ed hanno 40 iugeri di terra abbiano cavallo, scudo e lancia; così inoltre piace al principe circa gli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano la faretra con le frecce e l’arco.
3. Inoltre, circa quegli uomini che sono mercanti e che non hanno beni fondiari, quelli che sono maggiori e potenti abbiano corazza e cavalli, scudo e lancia; quelli che vengono dopo abbiano cavalli, scudo e lancia; quelli che sono minori abbiano faretre con le frecce e l’arco.
Queste poche righe ci permettono di ipotizzare su come chi non poteva permettersi nemmeno uno scudo veniva automaticamente esonerato dall’esercito (perdendo quindi lo status di longobardo) mentre solo i più facoltosi, e il loro seguito, potevano permettersi una corazza ed un cavallo (infatti a partire dal VII sec. lo status di cavaliere nobilitava il guerriero e la propria famiglia in seno alla società longobarda).
Gli studiosi sembrano concordi nel definire l’esercito longobardo, grazie anche ai rapporti con le popolazioni nomadi delle steppe durante la permanenza in Pannonia, come un’armata composta quasi esclusivamente da cavalieri. Noi preferiamo, anche sulla base dei corredi funerari che nella maggior parte dei casi rivelavano tombe povere (in cui comparivano solo spade, scramasax e lance) o appartenenti a guerrieri di ceto medio (dove lo status era affidato a cinture riccamente lavorate piuttosto che a corredi da cavaliere), pensare ad un nucleo combattente in cui fanteria e cavalleria (una cavalleria molto potente questo è indubbio) si equivalevano nel contributo militare. Dal VII sec. si può comunque notare un aumento dell’importanza militare della cavalleria osservando i corredi tombali dove le dimensioni degli scramasax passano dai 50 agli 80 cm rendendoli un’arma ancora più adatta agli scontri equestri.
Quasi nulla si sa delle tattiche impiegate dai Longobardi in guerra.
Di sicuro avevano assimilato ciò che ritenevano valido delle strategie bizantine (non dimentichiamo che i Longobardi non hanno sempre combattuto contro l’impero bizantino, perché in alcune occasioni, come ad es. durante la guerra gotica, hanno anche prestato servizio come truppe ausiliarie, in quanto federati, tra le sue fila), ma avevano comunque conservato pressoché intatto lo spirito guerresco tipico delle popolazioni germaniche che li spingeva a cercare il singolo duello per la gloria propria e della propria famiglia, a impegnarsi in combattimento spinti dal furor e a travolgere le linee nemiche prima con il terrore che con le armi, attaccando anche nottetempo com’era d’usanza presso gli antichi Germani (si racconta infatti: Desiderio aveva un figlio, giovane e gagliardo, di nome Algiso. Questi quando cavalcava, durante le ostilità, era solito portare con sé una mazza di ferro e con quella colpire con forza i nemici e prostrarli al suolo. Il giovane inoltre spiava i Franchi giorno e notte e, quando li vedeva addormentati, subito si gettava su di loro coi suoi guerrieri e, colpendo a destra e a manca, li abbatteva con grandissima strage [Chronicon della Novalesa, II-10]).
Una delle tattiche offensive che possiamo ritenere plausibile per i Longobardi era la cosiddetta formazione “a testa di cinghiale” (o “cuneo”) che vedeva il capo, circondato dai guerrieri migliori e meglio armati, dare il via alla carica sul nemico cercando poi di aprirne un varco nelle difese (ai nobili che circondavano il comandante seguivano gli arimanni disposti in base al rango). Tale formazione veniva usata anche dalla cavalleria.
La cavalleria, forse secondo l’esempio bizantino, era solita schierarsi ai lati della fanteria così da proteggere i guerrieri appiedati e poter caricare il nemico ai lati.
Sicura formazione difensiva era lo scildburg, il muro di scudi con cui ci si opponeva alle cariche di cavalleria o ad una compatta formazione d’attacco.
I cavalieri, a seconda della necessità, smontavano da cavallo per attestarsi a difesa.
Nonostante sia plausibile un uso di primitivi mezzi d’assedio (mezzi comunque di semplice costruzione e di efficacia limitata se comparati con gli apparati imperiali) va comunque detto che non erano particolarmente abili nelle tecniche ossidionali; forse anche per il loro numero non eccessivamente alto, per cui ogni guerriero era prezioso, preferivano cingere d’assedio le città nemiche (che generalmente capitolavano a causa del logoramento che un assedio portava in termini di fame e condizioni igieniche oppure per un aiuto interno da parte di Goti insofferenti verso il conquistatore bizantino che aprivano loro le porte delle città) limitandosi a presidiare il luogo, salvo poi approfittare di qualsiasi breccia anche passeggera nel sistema difensivo nemico.
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